Nel dibattito politico di queste ultime settimane la nuova riforma al vaglio del Governo Meloni ha generato un acceso dibattito tra sostenitori e opposizioni: la proposta, atta a modificare radicalmente gli equilibri di Esecutivo e Parlamento, ha sollevato infatti diversi interrogativi circa l’impatto sulle Istituzioni repubblicane e la stabilità del Paese.

Definita dal Presidente del Consiglio quale la “madre di tutte le riforme”, la bozza relativa alla modifica costituzionale si pone come alternativa in sostituzione al sistema parlamentare attuale, attribuendo maggiori prerogative al “premier”.

A parere dell’ex Presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati, oggi Ministro per le riforme istituzionali e la semplificazione normativa, la riforma garantirà “stabilità al Governo ed un maggiore avvicinamento dei cittadini alla vita politica”.

La concentrazione di nuovi poteri nelle mani del premier e del suo Esecutivo porterebbe, infatti, a detta della maggioranza, ad un più rapido e tempestivo intervento in situazioni e contesti particolarmente urgenti, nonché a dare risposte ancor più efficaci a problematiche ed obiettivi nazionali. Tra i punti favorevoli alla riforma discussi in Consiglio dei Ministri ad inizio Novembre figura inoltre la maggior responsabilità individuale che il “premierato” conferirebbe ai singoli membri del Governo, in quanto parte integrante nelle decisioni fondamentali per il buon funzionamento della “macchina statale”.

Non manca tuttavia chi si dichiara critico nei confronti della riforma “meloniana”, accusando la leader di Fratelli d’Italia di celare posizioni populiste dietro la bozza del “premierato”, al fine di accentrare nelle mani sue e di pochi eletti ancor più poteri di quelli ad oggi riconosciuti alla figura del Capo del Governo dalla Costituzione.

In particolare, dalle opposizioni la segretaria del PD Schlein definisce la riforma “una rivoluzione in negativo che intacca le prerogative del Capo dello Stato”, il quale di fatto si vedrebbe spogliato di diverse funzioni, prima fra tutte la nomina del Primo Ministro e dei membri del Governo (art. 92 Cost.).

Sebbene sia consuetudine sin dalla nascita della Repubblica che il Capo dello Stato nomini i Ministri su proposta del premier, con l’elezione diretta del leader del Governo, a parere del costituzionalista e giurista Mauro Volpi, il Presidente della Repubblica “si troverebbe di fronte a un Presidente del Consiglio con una legittimazione popolare e quindi molto più forte della sua, e difficilmente potrà rifiutarsi di nominare un ministro proposto dal Capo del Governo”.

In base al principio di “Sfiducia costruttiva”, inoltre, in caso di dimissioni del premier, il Capo dello Stato potrà indicare solo un esponente della stessa maggioranza per sostituirlo e, dunque, non si potrà più ricorrere in futuro alla formazione di Governi tecnici, tipici di periodi ove risultano necessari interventi urgenti e tempestivi in ambito economico o sanitario (si pensi all’Esecutivo guidato da Mario Draghi tra 2021 e 2022).

Altro elemento caratterizzante della riforma è l’abolizione graduale dei Senatori a vita di nomina presidenziale, previsti dall’art. 59 Cost., ovverosia cinque cittadini “che hanno illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario”. La bozza al vaglio del Consiglio dei Ministri non riguarderà i Senatori a vita di diritto: dunque i Presidenti emeriti della Repubblica, come Giorgio Napolitano, recentemente scomparso, potranno continuare a sedere anche in futuro tra i banchi di Palazzo Madama.

In quanto riforma a livello costituzionale, per l’approvazione del “premierato” occorrerebbero le maggioranze previste e stabilite dalla “procedura aggravata”, di cui all’art. 138 Cost., in forza del quale “le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali sono adottate da ciascuna Camera con due successive deliberazioni ad intervallo non minore di tre mesi, e sono approvate a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera nella seconda votazione”.

Qualora non si raggiungesse una maggioranza pari ai due terzi dei componenti delle Camere, il “premierato” sarà sottoposto a Referendum, a richiesta di un quinto di deputati, senatori o di 500mila elettori, il quale, con ragionevole probabilità, si terrà non prima del 2025.

Christian Monti, III^BE

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