“Non accettate le hit estive fatte con lo stampino, esigete sempre e solo musica originale, che tanto non rimorchiate
in ogni caso (semicit)”.

  Teatro D’ira vol. 1 – Måneskin

Immagine

In seguito alla loro vittoria a Sanremo, dire che la critica fosse impaziente di giudicare questo disco è l’eufemismo del secolo. Fra chi voleva osannarlo a Messia del rock contemporaneo e chi non vedeva l’ora di demolirlo perché “sono troppo commerciali”, Teatro d’ira era una vera e propria prova del nove.

E mi dispiace per i detrattori, ma questi ragazzi sanno fare musica, poche storie. 

Abbandonate le discutibili sovrastrutture e scelte stilistiche – derivate dal dover mettere su un album in fretta e furia appena usciti da XFactor – de Il Ballo della Vita, la seconda fatica dei Måneskin presenta un’evidente maturazione artistica. Zitti e buoni si conferma essere un pezzo coi controfiocchi, nonché un’ottima opening track; fra i brani in inglese, si distingue I wanna be your slave, groovy e di facile ascolto (ho sempre pensato che sarebbe stata ottima come singolo; e visti i recenti risultati, ve pijate un bel io l’avevo detto). Non si può non parlare, poi, di Coraline: una ballad teatralmente travolgente, sia nel suo crescendo musicale, sia nella parabola discendente narrata dal testo. Meno riuscita, a mio avviso, Vent’anni: nonostante a livello contenutistico sia davvero una buona ending track, musicalmente sa di già sentito (quindi Marlena torna a casaaaa, anyone?).

Hanno ancora tanta strada da fare? Su questo non ci piove. Sono “vero rock”? Dipende da cosa uno intende per rock; e questo, al momento, è un quesito senza soluzione univoca. Forse, per quanto li riguarda, la risposta è chissenefrega. Ciò che sappiamo al momento è che sono quattro musicisti con tante idee e tantissimo potenziale, e questo va assolutamente riconosciuto e apprezzato.

Madame – Madame (duh)

Immagine

Niente da fare, questo è l’anno di Madame. Già negli ultimi due anni, l’artista diciannovenne, al secolo Francesca Caleari, si era fatta conoscere da chiunque seguisse la scena rap italiana grazie a una manciata di singoli (Sciccherie, 17, Baby); poi, lo scorso marzo, sono arrivati Sanremo, due Targhe Tenco e, finalmente, l’album di debutto. 

Difficile da afferrare, difficile da descrivere a parole che non siano le sue. D’altronde, la scrittura di Madame è brutalmente introspettiva, esplicita, vulnerabile; in sintesi, umana senza censure. Si spazia dall’amore alla solitudine, dalla sessualità al malessere esistenziale, tutto con una schiettezza disarmante. Potrei scrivere pagine intere a riguardo, ma per farla breve, segnalo i singoli Voce e Clito, Tutti Muoiono e la ending track Vergogna. Provare per credere.

Anche musicalmente, il disco non delude affatto, unendo le sonorità urban che già conoscevamo a influenze funk (Il mio amico), itpop (Babaganoush), dark pop (Tutti muoiono), rap old-school (Dimmi ora). Qualche commercialata – Marea e Luna, con la sua cassa in quarti tamarra –, ma alla fine le tracce sono sedici, ci si passa sopra. Feat che, seppur non pochi, si sposano bene con le canzoni di cui fanno parte, e produzioni stellari (c’è Dardust, d’altro canto). 

In un mondo mainstream saturo di prodotti non ispirati, banali e/o già consolidati, è bello ascoltare un disco d’esordio come questo. Spero con tutta me stessa che l’estro di Madame non si spenga col passare degli anni; lo spero sempre per tutti, ma per lei un po’ di più.

  Typhoons – Royal Blood

Immagine

Sempre per la rubrica “smontare i nostalgici del buon vecchio rock di una volta”, anche oggi vi portiamo l’ennesima dimostrazione che il mondo è tuttora pieno di (gg)giovani che suonano da Dio (non che questi due avessero bisogno di dare ulteriori dimostrazioni, ma comunque).

Se il precedente How Did We Get So Dark? aveva ricevuto recensioni tiepide a causa dell’eccessiva somiglianza con l’album di debutto – Royal Blood, uscito nel 2014 e adorato dalla critica, nda –, il terzo disco del duo britannico Royal Blood rappresenta indubbiamente una svolta stilistica. I giri di basso iperdistorti e le batterie aggressive si fondono con sintetizzatori e tastiere: pezzi più analogici (Boilermaker) si intervallano a tracce principalmente elettroniche (Trouble’s Coming). Ma i veri fiori all’occhiello sono la title track e Limbo: insieme formano un connubio di dance rock e synthwave che riassume alla perfezione l’identità del disco (e che mi manda in estasi mistica a ogni ascolto. Ovviamente). Per quanto riguarda i brani restanti, c’è da dire che in generale non sono memorabili tanto quanto quelli sopracitati – con qualche doverosa eccezione. Oblivion suona un po’ come se Supermassive Black Hole dei Muse e Harder, Better, Faster, Stronger dei Daft Punk avessero avuto un figlio; la ending track All We Have Is Now è una ballad dal sound molto diverso da quello delle tracce precedenti; decisamente buone anche le tracce bonus, King e Space – soprattutto la seconda. Insomma, ci piasce, voto diesci (non proprio diesci, ma nel complesso è comunque un album strafigo)

  SOUR – Olivia Rodrigo

Immagine

Altro giro, altra giovane rivelazione dell’anno. A soli diciotto anni, Olivia Rodrigo è sulla cresta dell’onda: dopo l’enorme successo del suo singolo Drivers Licence – che ha infranto vari record di Spotify ed è rimasto in vetta alla Billboard Hot 100 per otto settimane – l’artista statunitense ha pubblicato, lo scorso maggio, il suo album d’esordio. 

Composto da undici tracce, SOUR può dare l’impressione di essere il solito break-up album da classifica — ma in realtà ha qualcosa di più in serbo per i suoi ascoltatori. 

Dal punto di vista contenutistico, il disco affronta il tema di una prima relazione naufragata in maniera diretta, senza fronzoli e anche con un certo “sviluppo del personaggio” (?): il passaggio dalla tristezza di Deja-vu alla rabbia di Good 4 u all’autoriflessione di Jealousy, jealousy, per esempio. Menzione molto onorevole per la opening track, Brutal (I’m so sick of seventeen/Where’s my fucking teenage dream? Ah, ce lo stiamo chiedendo tutti, Olivia) e per la ending track, Hope ur ok, che si distacca dalla storyline del resto dell’album e lo fa decisamente con stile.  

Anche dal punto di vista musicale, l’album risulta fresco e genuino. Quasi tutto pop, qualche pezzo un po’ basic (Traitor, Happier), ma spiccano sporadiche influenze folk (Favorite crime), pop punk (Good 4 u) e garage rock (Brutal). Produzioni di alto livello, fighissima la linea di piano abbinata al basso in Jealousy (sono i miei strumenti preferiti, chevvedevodì). In a nutshell: deve ancora maturare molto – ovviamente –, ma Olivia Rodrigo è decisamente da tenere d’occhio. 

  OBE – Mace

Immagine

Last, but not least. Nonostante in teoria questo sia il suo primo album in studio, in pratica Mace non è affatto un novellino nella musica italiana. Classe 1982, all’anagrafe Simone Benussi, ha alle spalle circa vent’anni di collaborazioni, nelle vesti di produttore, con una schiera vastissima di artisti italiani. Ha lavorato anche come dj e beatmaker, sperimentando con diversi generi e viaggiando un po’ in tutto il mondo. 

E tutta questa esperienza si sente tantissimo nel suo OBE (acronimo di Out of Body Experience), disco composto da diciassette tracce contenenti i feat di praticamente mezza scena rap e trap italiana (Guè Pequeno, Salmo, Gemitaiz, Rkomi, Madame, Ernia eccetera), più qualche guest star dall’itpop (Colapesce, Psicologi, Carl Brave). Insomma, tanta roba in tutti i sensi. 

(L’avete capita? Eh? Eh? Quanto sono divertente.)

La grande varietà di OBE, comunque, non si limita solo al suo cast, ma anche e soprattutto al variegato microcosmo di sound e generi dai quali è popolato. Buoni i singoli La canzone nostra e Noi ragazzi nella nebbia, molto interessanti Non vivo più sulla Terra (nonostante la cassa in quarti tamarra), Ayahuasca (con l’accoppiata “synth à la Stranger Things” e “chitarrina indie”), Senza fiato (con il rapping di Venerus e il bellissimo timbro di Joan Thiele) e Sirena, che potrebbe essere la mia preferita (non solo perché c’è Ernia, giuro che ho altri motivi). Un po’ blanda Colpa tua come opening track, meravigliosa Hallucination come ending track (quattro minuti e mezzo di brano strumentale onirico-psichedelico? I’m in).

Insomma, per farla breve: che siate cultori del genere o meno, io gli concederei comunque un ascolto. Potrebbe valerne la pena.

♪ Alice Bagli

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *