Quel freddo giorno di ottobre il cielo era dello stesso colore della cenere. Non si era in grado di scorgere nemmeno uno spiraglio di luce, tutto pareva aver perso ogni sfumatura. Le nuvole si mescolavano al bigio della spessa foschia, sembrava un’infinita massa senza colore. Mi ricordava quel quadro, quel bellissimo quadro appeso in camera: “Viandante sul mare di nebbia”. Lei lo ama; era come se quel giorno ci fosse una parte di lei nel cielo.

Camminai, lentamente, ascoltando il rumore dei miei passi sul ciottolato e del vento che faceva muovere gli alberi, ormai con poche foglie scolorite, in quella che somigliava ad una gelida danza senza musica. Il mio passo rallentava man mano di più, inconsapevolmente, tanto che quasi mi fermai. Ma poi ripartii, per poi fermarmi di nuovo, e poi ripartire nuovamente; volevo soltanto restare a guardare il cielo finché non sarebbe arrivato il buio.

Però, poi, iniziò a piovere. Gocciolava appena, ma sentivo la mia pelle umida e fredda. Accellerai il passo, solo per non far sgualcire i fiori. Si sarebbero rovinati lo stesso, sarebbero appassiti a breve; ma volevo lei li vedesse, in tutta la loro bellezza.

Dopo un’interminabile camminata, mi fermai. Girai la testa a destra, a sinistra, dietro di me: non scorgevo alcuna pallida figura. Un angoscioso senso di disagio mi pervase, sentivo qualcosa di sbagliato. Alzai la testa, e feci un sorriso al cielo; mi pareva di intravedere l’accecante sagoma del sole nascosta dietro al grigio, che mi sorrideva da tempo, prima che io mi accorgessi di lei. La salutai e le mandai un bacio, per poi abbassare lo sguardo e fare un passo avanti. Quel tormento mi scosse nuovamente, e lo sentii dentro di me, fino all’osso. Non capivo. Però feci un altro passo, e poi uno ancora, senza pensare a nulla. Mi accorsi soltanto che la pioggia si era fatta più intensa. Avanzai, ogni tanto affossando un piede in una piccola pozzanghera e, dopo aver seguito le indicazioni fornitemi, raggiunsi la mia destinazione. 

Fissai quella pietra infossata nel terreno, con una sua foto appesa e il suo nome inciso, e le sorrisi. <<Ciao.>>

Vedere il suo viso mi riempiva di immensa gioia. Non sarei in grado di dare una forma alla felicità e all’amore diversa dal suo volto: quei ricci dorati, al tatto velluto, quelle labbra dipinte del suo rossetto preferito, del colore delle rose, quella pelle così morbida, candida come la neve, i suoi occhi, quegli occhi di cui mi inebriavo ogni volta che mi concedeva di annegare in essi, in quel loro tenero fosco.

Mi sedetti per terra, di fronte a lei. Il mio dito scorse sulle scritte incise, sul suo nome. <<Elaine…>>, sussurrai, come una preghiera. Al solo suono di quelle lettere, il mio cuore iniziò a battere. Suonava come un incantesimo, una malia che mi incatenava alle memorie della sua voce, del suo sorriso…

<<Elaine>> la chiamai di nuovo. <<ti ho portato questi.>> appoggiai i fiori alla pietra, così che potesse vederli da vicino. <<Non sono bellissimi? La pioggia li ha rovinati leggermente, ma rimangono incantevoli.>> Accarezzai appena i petali con un dito. <<Sono giacinti. Li avevamo visti una volta, e mi dissi che ne avresti amato un mazzo: eccolo. Questi fiori, sai, simboleggiano la rinascita. Prendono il nome da un mito greco: Apollo, il dio del sole, aveva un giovane amante mortale, Giacinto, che amava immensamente, Un giorno, però, Apollo ferì Giacinto mentre gareggiavano al lancio del disco; il dio adoperò ogni arte medica di cui era a conoscenza, ma il suo impegno fu vano, e il giovane morì. Per non dimenticarsi mai del suo amato, il dio trasformò il sangue del giovane in un bellissimo fiore, il giacinto. Gli donò così una nuova vita e lo rese immortale. Non è straordinario?>>

L’unico rumore che sentivo era la pioggia che cadeva per terra. Fissai quel volto a me così caro, in attesa di una risposta. Una goccia cadde sul suo occhio sinistro e scivolò giù, rigandole il volto come se stesse piangendo.

<<Elaine, non piangere…>> le dissi piano, sorridendo, per rassicurarla. Con un dito le asciugai la lacrima, ma un’altra goccia di pioggia cadde. Gliela asciugai nuovamente, ma non smetteva di piangere. <<Elaine…>>

Ripetevo quel nome come una melodia di cui non volevo dimenticarmi. <<Elaine… Elaine, rispondimi, ti prego.>>

Il mio sguardo era incapace di staccarsi da quel sorriso bagnato di lacrime, da quel volto pallido che non avrebbe mai aperto bocca per rispondermi. Mi voltai alla mia sinistra, chiamando il suo nome. Non rispose neanche quando mi girai a destra, e nemmeno quando la cercai dietro di me. Non udivo il suo respiro, non sentivo il suo odore, non la vedevo. Non c’era. Non c’era, da nessuna parte, e non ci sarebbe mai più stata. 

Alzai il capo verso il cielo, e mi ritrovai incapace di scorgere il sole. Tutto attorno a me era buio, privo di colore, la nebbia offuscava il mio intero mondo. Non vedevo nulla, se non la tomba di fronte a me; tutto il resto era grigio ed eterno.

Mi chinai di fronte a lei e piansi. La chiamai, cercai di sentire il suo calore, provai a raggiungere la sua mano, la sua pallida e gelida mano che mai mi avrebbe più sfiorato. Di colpo, la pioggia non era più rumorosa delle mie lacrime.

Mi ricordavo ancora la sua voce? Mi ricordavo il suono della sua risata, l’amore della sua pelle, delle sue labbra che toccavano le mie, il modo in cui mi chiamava? Ricordavo il suo nome, quel nome che desideravo rendere mio in eterno, pronunciare come promessa, oppure era stato tutto solo un’illusione? 

<<Elaine…>> baciai la sua lapide. Forse, nel profondo, il mio ingenuo animo era convinto di poterla riabbracciare, di poterle donare una seconda vita, come Apollo aveva fatto con Giacinto. Ma non ero un dio; come lei, ero solo un mortale fatto di carne e sangue.

<<Elaine, ti prego…>> mormorai, coprendomi gli occhi con le mani. <<Ho bisogno di te. Noi siamo una cosa sola, non è vero? Me lo hai promesso: che mai ci saremmo abbandonati, che saremmo stati l’uno accanto all’altra per l’eternità. Ed eccomi, di fronte a te: dove sei? Non posso esistere se non posso baciarti… ti prego, ti imploro, lasciami stare con te… Se Dio esiste, per favore, lascia che io smetta di vivere, così che possa morire per sempre con colei che amo. Non posso vivere se non ci sei… non voglio vivere…>>

Ripetei questa mia elegia, forse per ore e ore.  <<Non posso vivere… non voglio… lasciami morire con te, Elaine…>>

Mi parve di sentire la sua voce nel mio pianto. Mi voltai, sperando di ritrovare quel pallido sorriso; nulla. La pioggia era l’unica a non lasciarmi da solo nel pianto. Sperai di trovare sollievo nel suo canto, nel suo profumo, nel suo assordante silenzio.

In quel momento, nella calma della pioggia, un ricordo mi riaffiorò alla mente: la figura danzante di Elaine, fradicia, la sua risata nel temporale; la sua mano nella mia, che mi trascina in un ballo lento, immortale. Riuscivo ancora a sentire il gelo del suo tocco, come fosse stata lì con me. Mi alzai in piedi e, davanti alla sua lapide, presi la mano della pioggia e danzai con lei. Mi mossi lentamente, a ritmo delle gocce che mi bagnavano la pelle. Chiusi gli occhi e ballai, come se lei fosse con me, come se stessi accarezzando il tessuto bagnato del suo vestito. Riuscivo quasi a sentire la sua voce che cantava, e mi unii a lei: cantammo quella melodia che ci eravamo inventati e che amava suonare al pianoforte. Non avrei mai dimenticato quelle note.

Ma, per quanto tentassi di illudermi, lei non c’era. La sua mano non era nella mia, di fronte a me c’era solo nebbia, le mie dita toccavano solo il nulla. Sorrisi, nonostante tutto, e piansi. Lei non c’era, ma c’era stata, nonostante mai più sarei potuto stare con lei. Sorrisi, perché i suoi ricordi vivevano dentro di me, e per questo stesso motivo piansi, perché in eterno sarebbero vissuti senza che io potessi più viverli.

  • Ispirato da “The Funeral Party” dei The Cure.

Di Qual Vanessa 3CS

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