Sentii solo un forte rumore, urla, grida, gente in panico e poi il buio più totale accompagnato da un terribile schianto.

14 ore alla strage.

Guardai il mio orologio da polso, erano le 14.41 e mancava ancora un’ora alla fine del mio solito turno in ospedale.

Quel giorno ero di buon umore; d’altronde quella sera sarei partito per le isole Trobriand tanto che, al solo pensiero, non stavo più nella pelle.

Giunto a casa, feci le solite cose di routine prima di un viaggio: la valigia, pulire i pavimenti, spegnere il frigorifero e altre faccende analoghe.

Superato il check-in, mi imbarcai e poco dopo l’aereo decollò.

Il viaggio sarebbe dovuto durare circa 10 ore e, vista la mia stanchezza causata dalla giornata impegnativa, decisi di riposarmi un pò.

Purtroppo quella non fu una delle mie migliori dormite, complice quello che successe in seguito.

Mi svegliai di colpo, cominciai a tossire, comportamento prevedibile vista l’enorme quantità di fumo che mi circondava. Guardandomi attorno riuscivo a scorgere solamente frantumi e tanto sangue. Cercai di alzarmi con le poche forze rimaste per andare ad aiutare chi ne aveva bisogno, ma chi non ne necessitava in una tale situazione?

Nessuno sapeva dove eravamo finiti, probabilmente tra l’Oceano Atlantico meridionale e quello Indiano, nessuno poteva darmi una certezza, menchemeno i due piloti, ormai passati a miglior vita.

L’aereo era un boeing 747 che poteva contenere intorno ai 500 passeggeri, ma, secondo i miei calcoli approssimativi, in quel momento eravamo a malapena 100, inclusi coloro ormai in fin di vita. 

Insieme ad un gruppo ristretto di persone, tra cui anche due bambini, decidemmo di stanziarci in un luogo riparato dal sole, una zona pianeggiante posta al di sotto di alcune piante.

Andai in esplorazione con altri 4 membri del gruppo al fine di trovare della legna e dell’acqua: la mia gola, il mio cervello, il mio corpo e ogni parte di me aveva bisogno di liquidi.

Fortunatamente ben presto riuscii a scovare un piccolo ruscello, ero cosciente del fatto che prima di bere avrei dovuto far bollire l’acqua, ma in quel momento di tensione mi fiondai su quella che ai miei occhi sembrava l’unica via, come me anche gli altri.

Riuscimmo a trovare della legna che però risultò umida, ipotizzammo che il giorno prima avesse   piovuto. Nonostante ciò portammo il legname all’accampamento.

Nel frattempo gli altri si  erano dedicati alla caccia di alcuni piccoli molluschi e alla raccolta di alcune noci di cocco.

Quella sera mangiai una testa di granchio cruda, mordendola quando l’animale era ancora in vita, il resto del corpo lo passai al compagno alla mia destra, il suo nome era Rafa. 

Con il passare del tempo iniziammo ad esplorare l’isola ed escogitammo alcune strategie di caccia, come quella degli uccelli.

Al settimo giorno due di noi ci abbandonarono, tra cui Rafa che morì tra le mie braccia chiedendomi se Dio avrebbe avuto misericordia della sua anima. Cercai di trattenere le lacrime, ma non riuscii e poco dopo si spense.

Quella notte non riuscivo a chiudere occhio, la fame ne era la causa primaria. In secondo luogo mi mancava casa e Annalisa, la mia cagnolina di appena sedici mesi: in quel momento avrei voluto essere nel letto insieme a lei al calduccio.

I giorni passavano, la fame invece no e con essa anche la speranza di essere trovati da qualcuno. Il mio corpo era fragile e debole, ma non avevo intenzione di lasciarmi andare a miglior vita.

Ma come farò a sopravvivere? Arriverà qualcuno a salvarmi o verrò abbandonato qui per sempre? Non lo so, ma per il momento continuerò ad andare alla ricerca di qualche piccola sostanza da poter mangiare…

Vergani Alice e Magnani Riccardo.

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